Baccanali

 


Nome dato dai Romani a tutte le feste orgiastiche del culto orfico-dionisiaco (in greco τὰ βακχεῖα); in special modo però usato per designare quei misteri dionisiaci che, dalla Magna Grecia, ove erano molto diffusi, penetrarono, al principio del sec. II a. C., attraverso l'Etruria, a Roma. Ciò che noi sappiamo dei Baccanali romani e dei fatti, molto gravi, cui essi diedero luogo, lo dobbiamo principalmente al racconto di Tito Livio. Lo storico narra che un Greco dell'Italia meridionale, sacerdote e indovino venuto in Etruria, vi fece conoscere i riti dionisiaci, che degenerarono ben presto nelle orgie più immorali, pretesto, talora, di ogni sorta d'azioni delittuose. Dall'Etruria codesti riti passarono a Roma. Quivi pare che già si praticassero i riti dionisiaci, importati direttameme dalla Magna Grecia: essi consistevano in feste notturne che si tenevano tre volte all'anno nel bosco di Stimula (nome latino di Semele), presso l'Aventino e alle quali partecipavano soltanto onorate matrone romane. In seguito però una donna campana, sacerdotessa di questo culto, Annia Paculla, ne trasformò del tutto il rituale, conformandolo appunto sul modello di quello etrusco: vi furono ammessi gli uomini e le adunanze furono aumentate a cinque ogni mese. Da allora cominciò a diffondersi la voce che in codeste riunioni si commettesse ogni sorta di nefandezze. Il racconto liviano non va preso alla lettera, dovendosi tener presente come il diffondersi di culti nuovi e segreti, specie in una popolazione, come quella romana, sospettosa d'ogni novità, fu causa spesso di esagerata commozione dell'opinione pubblica: basti pensare a ciò che si disse e si credette dei primi cristiani. Così a Roma si finì per vedere negli affiliati ai riti bacchici una specie di grande setta, pericolosa per l'ordine morale e sociale: un affare privato procurò casualmente a Sp. Postumio Albino, console dell'anno 186, le prime rivelazioni precise da parte della liberta Ispala Fecenia. Condotta a fondo l'inchiesta e persuaso della gravità della cosa, il magistrato ne informò il senato, il quale ordinò ai consoli che, con procedimento giudiziario straordinario, provvedessero a ricercare e ad arrestare tutti gli associati alla religione bacchica, per poi processarli. Gli accusati furono ben 7000, fra uomini e donne; capi della setta risultarono due plebei romani, Marco e Gaio Atinio, un Lucio Opiterio di Falerii e il campano Minio Cerrinio; coloro che furono riconosciuti soltanto iniziati ai misteri, ma innocenti di qualunque altra turpitudine o delitto, furono lasciati in prigione, quelli invece - e furono i più - che si erano macchiati di stupri, di omicidi, o di frodi, furono puniti di pena capitale, non escluse le donne. Ciò fatto, si provvide a che per l'avvenire il pericoloso caso non avesse a ripetersi. Furono sciolte, con ordine dei consoli e con poco riguardo ai trattati, tutte le associazioni bacchiche ancora esistenti a Roma e in Italia, anche nelle città degli alleati; indi fu emanato un senatoconsulto che ne proibiva la costituzione per l'avvenire. E il famoso senatus consultus de Bacchanalibus, il quale fu dai consoli comunicato a tutti i federati d'Italia; ne è giunta fino a noi una copia, su una tavola di bronzo scoperta a Tiriolo in Calabria e ora conservata a Vienna (Corp. Inscr. Lat., 2a ediz., I, 581; X, 104): esso contemplava una proibizione generale dei riti bacchici, permettendone soltanto la celebrazione in qualche caso speciale, previa autorizzazione del senato e a condizione che al rito non partecipassero più di cinque persone alla volta, due uomini e tre donne. La misura del senato provocò grande emozione, ed anche delle resistenze vivaci, nelle città della Magna Grecia, specialmente a Taranto, dove occorsero alcuni anni perché il senatoconsulto avesse piena applicazione. Per la severità con cui allora si provvide i Baccanali non riapparvero mai più a Roma.

 

 

Giulio Giannelli, Enciclopedia Italiana (1930)